Sembra trasformarsi in un gioco a nascondino il negoziato tra Serbia ed Unione Europea in vista della possibile adesione al consesso continentale di quel che resta della scomparsa federazione yugoslava. Se da un lato alcuni importanti ostacoli sono stati rimossi, primo fra tutti la consegna del principale artefice della mattanza in Bosnia, il generale Ratko Mladic, altri rimangono a sbarrare la via ai governi di Belgrado. Il Kosovo, in particolare, continua a rappresentare la principale spina nel fianco dell’élite succeduta al timone del paese dopo il crollo del regime di Slobodan Milosevic nell’ormai lontano ottobre 2000. Come noto, sconfitta rovinosamente dall’intervento internazionale successivo alla violenta repressione contro la maggioranza albanese della provincia, la Serbia ha dovuto accettare la presenza di una forza militare che, de facto, sanciva il completo distacco della zona dal suo controllo. Nel febbraio del 2008 si è giunti, con un’accelerazione del processo di transizione, all’autoproclamazione dell’indipendenza da parte dell’amministrazione albanese di Pristina. Finora sono 86 gli stati, fra cui 22 europei, ad aver dato pieno riconoscimento alla nuova entità sovrana. Ulteriore accelerazione di questi giorni è costituita dal voto di una mozione del parlamento locale che richiede la fine della supervisione internazionale entro e non oltre il 2012. Un boccone difficile da digerire anche per l’Esecutivo moderato serbo in carica dal 2008, ma anche la precondizione base posta da Bruxelles per entrare a far parte del club europeo. E le reazioni, di segno negativo, non si sono fatte attendere, mettendo in serie ambasce il gabinetto uscente che si trova a dover fronteggiare la minaccia di una sconfitta nelle oramai imminenti elezioni parlamentari che si svolgeranno questa primavera. Ma non è solo il nodo Kosovo a turbare il clima generale:anche con l’ultimo socio a lasciare la compagnia, il piccolo Montenegro, la tensione si è improvvisamente infiammata in seguito ad un episodio assai spiacevole occorso ad un giornalista del posto. Nell’articolo “L’Eredità della grande Serbia” Andrej Nikolaidis, scrittore e consulente del parlamento di Podgorica, ha duramente stigmatizzato le connivenze tra una parte dell’establishment serbo ed i settori più irriducibili della repubblica Srpska di Bosnia che puntano ad affondare il fragile equilibrio raggiunto nella più martoriata fra le contrade balcaniche. Ironizzando sul rinvenimento di un arsenale di armi ed esplosivi in coincidenza con il ventesimo anniversario della nascita dell’entità serbo-bosniaca, Nikolaidis ha preso di mira coloro che avevano intenzione di utilizzare il tutto “sebbene non per scopi nazionalisti, ma per esprimere la propria insoddisfazione sociale”. Immediata e veemente la reazione di parte serba sino a giungere all’incidente diplomatico e ad una campagna stampa che ricorda gli anni più bui del regime nazional-comunista. Si è giunti sino al punto di epurare il presidente della Biblioteca di Belgrado, Sreten Ugricic, colpevole di aver manifestato, assieme a molti altri intellettuali serbi, il proprio dissenso nei confronti della vera e propria fatwa in stile iraniano lanciata dai media contro il periodista montenegrino. A dire la verità non si è arrivati, vivaddio, a minacciare di morte l’incauto, ma la dimostrazione di sciovinismo offerta ha inquietato assai quelli che della moderazione avevano fatto il loro credo dopo aver subito per più di un decennio la cappa asfissiante dell’odio istituzionalizzato. Alcuni hanno confessato il timore per un ritorno a quel clima ed i fatti,purtroppo, non hanno fugato del tutto la sgradevole impressione. Tutto questo, dicevamo, accade mentre il paese si prepara a vivere un’ordalìa elettorale che, come spesso accade da queste parti, vede molti attori tutti impegnati a recitare più parti nella stessa commedia. Con lo spettro incombente di un passato che non sembra mai voler passare.
pubblicato su: “L’Indipendenza” http://www.lindipendenza.com/passato-serbia/