Le prime mosse dell’esecutivo sovranista del Québec, provincia a maggioranza francofona della confederazione canadese, non saranno di certo annoverate nel rango dei successi epocali.
Tornato al timone del governo locale, il Parti Québecois della Premier, Signora Pauline Marois, ha, infatti, incassato due rovesci cocenti nell’arco di poche ore riuscendo a ricompattare un’opposizione parlamentare finora litigiosa su tutto. Eppure si trattava di materie sì di una certa importanza ,ma non certo della portata esplosiva di un nuovo referendum per l’indipendenza. Su questo ultimo punto la Marois ha adottato una linea di condotta piuttosto prudente dopo le sconfitte del 1980 e quella sul filo di lana del 1995 che smorzarono alquanto la crescita apparentemente irresistibile del movimento per l’autodeterminazione iniziato sul finire degli anni ’60. Motivo di tanta flemma soprattutto il fatto che le ultime elezioni legislative si sono concluse bensì a favore del PQ, ma con un vantaggio minore del preventivato sugli acerrimi rivali liberali e, soprattutto, senza una maggioranza nell’assemblea (54 seggi conquistati di contro ad una maggioranza assoluta di 65).
Via libera, quindi, ad iniziative più di basso profilo che mirassero a ridare mordente allo spirito autonomistico alquanto declinante nell’ultima decade. I due provvedimenti riguardavano, nello specifico, due dei principali simboli identitari di ogni comunità nazionale che si voglia definire tale, ovvero la bandiera e la lingua.
La prima, la tradizionale croce bianca in campo azzurro attorniata dai gigli (già emblema della monarchia francese che di queste terre fu prima colonizzatrice) è stata da sempre oggetto di un singolare balletto nei palazzi di rappresentanza del Québec assieme all’omologa federale, la arcinota foglia di acero. Ebbene, ogniqualvolta i sovranisti prevalevano nel voto la prima aveva l’onore di campeggiare ovunque e la seconda veniva, per così dire, accantonata. Il contrario accadeva con i governi liberali, da sempre fautori di un federalismo unitario. Questa volta il tentativo del governo è stato frustrato, come in precedenza scritto, dal convergere del dissenso di liberali e nazionalisti moderati della CAQ (Coalizione per il futuro del Québec) ed i due emblemi dovranno, dunque, convivere nella medesima “red room” dell’assemblea legislativa locale dove si riuniscono le commissioni parlamentari.
Riguardo poi alla questione della lingua, lo smacco è stato, se possibile, peggiore visto che a sconfessare l’operato della maggioranza(relativa) ci ha pensato,nientemeno che l’Office québecois de la langue française, la speciale autorithy incaricata di vigilare su eventuali violazioni ai danni della prima lingua provinciale. I dati forniti dall’agenzia suggerivano, infatti che il numero di lavoratori ed imprenditori ad utilizzare l’idioma gallico non era in diminuzione sotto l’assedio dell’ortodossia anglofona bensì in aumento abbastanza pronunciato. Immediato e doveroso, quindi, il ritiro dell’emendamento che aveva per oggetto la modifica della legge-quadro in materia con altrettanto comprensibile scorno della Premier e degli altri notabili “pekistes”.
Nonostante la duplice batosta, la luna di miele tra Marois e l’elettorato non sembra essere tramontata del tutto.:il consenso alla separazione dalla Confederazione oscilla, è vero, attorno al 35%: troppo poco per pensare ad un terzo tentativo di consulta popolare, ma, complici le difficoltà degli avversari (anch’essi alle prese con non trascurabili problemi di immagine e pregressi scandali affaristico-finanziari) il Parti Québecois è dato dai sondaggisti oltre il risultato raggiunto lo scorso settembre e con un bottino potenziale di 70 parlamentari. Quanto basta per pensare ad un possibile, anzi probabile, ritorno alle urne già nel 2013